lunedì 2 aprile 2012

Dall’inerzia al flusso

«Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
 silenzi, e profondissima quïete 
io nel pensier mi fingo, ove per poco 
il cor non si spaura»
(Giacomo Leopardi, L'Infinito, vv.4-8)
Mentre da ogni dove si implora sobrietà e l’austerity è vocata panacea a tutti i mali, quale antidoto alla crisi sistemica che imperversa ormai da (troppo) tempo, il PAV - centro d’arte contemporanea e “palestra di pensiero” - attraverso una serie di incontri aperti allo scambio e alla germinazione di idee, si interroga sulla trasformazione della società contemporanea, cercando di individuare sul piano storico l’inizio della crisi e tentando di fornire risposte concrete per un suo superamento.
Come orientarsi all’interno di un processo di crisi che non è soltanto economica ma anche - se non addirittura antropologica - causa di una metamorfosi delle forme elementari della relazionalità, del comportamento e della produzione di senso?
Un apporto notevole al tema è dato dal noto sociologo Marco Revelli, che al PAV sviluppa una riflessione sulle interrelazioni tra crisi ambientale e crisi di civiltà, partendo da un excursus storico che dagli anni ’80 giunge ai drammatici effetti dell’oggi.
Emergono corrispondenze tra la scelta di logiche neoliberiste e il disastro ambientale, così come tra gli assetti sociali attuali e il fenomeno della mercificazione della natura e lo svuotamento dei valori umani con la correlata “perdita del senso”.
La crisi – afferma Revelli – ha un orizzonte di inquadramento molto ampio, quella cui oggi assistiamo è solo la fase finale di un processo iniziato da tempo.
E’ il ‘900 – secolo “breve” ma denso – che segna questo processo di crisi delle forme di senso che la cultura occidentale si era data, di cui la grave situazione che imperversa in Grecia rappresenta un aspetto simbolico. Si tratta di un matricidio, del soffocamento di quello che è stato il punto di partenza per il lungo cammino di civilizzazione dell’Occidente, da cui si sono generate le categorie del senso e che oggi attraverso la finanza viene condannata a morte.
Un’impalcatura che è incominciata ad entrare in crisi con la Prima guerra mondiale, con Aushwitz, con Hiroshima: eventi che hanno cancellato la possibilità di una narrazione.
Se il racconto è il tentativo di ricapitolazione di senso, attraverso cui l'uomo conferisce significato al proprio esperire, traccia le coordinate interpretative di azioni e situazioni, e sulle quali costruisce forme di conoscenza, allora il Novecento è il secolo dell’afasia della narrazione, il secolo in cui si delinea quella che Günther Anders chiamò «discrepanza», ovvero la sproporzione tra gli atti umani e le conseguenze che queste producono.
Ed è lì che, in qualche misura, la dimensione antropologica ha incominciato a decostruirsi impennandosi nell’ultimo trentennio in una accelerazione che ha generato una mutazione genetica del DNA collettivo e la conseguente affermazione di un nuovo type humain.
A partire dagli anni ’80, con il processo di deindustrializzazione e i primi esempi di globalizzazione via delocalizzazione, si assiste al passaggio dalla centralità del produttore alla centralità del consumatore, che con la sua disponibilità a spendere fa crescere la società diventando il nuovo “eroe sociale”.
La disponibilità al consumo costituisce di per sé la ricchezza delle nazioni, che non sta più nel lavoro ma nell’ utilizzo.
Ne consegue una inevitabile crisi antropologica segnata dal passaggio dall’Homo faber - cioè da un’antropologia fatta di disciplina, dimensione collettiva, risparmio, abilità tecnica, saper fare - all’Homo consumens e ad un antropologia del consumatore. Un nuovo tipo umano per dimensione esistenziale e modalità relazionali, per il rapporto cioè che stabilisce con sé stesso, coi propri simili e con l’ambiente.
L’autore che con più chiarezza ha messo l’accento sul salto antropologico che si è consumato con questa totalizzazione della categoria del consumo – sottolinea Revelli – è Zygmut Bauman.
La modernità “liquida” di cui parla Bauman, ovvero la fase in cui la modernità inizia a decostruire se stessa e la cultura occidentale ad erodere le proprie categorie, è caratterizzata dalla centralità dell’agire di consumo piuttosto che dall’agire di lavoro e dall’affermarsi della figura del consumatore.
Diverso per senso morale e sistemi di valori, l’Homo consumens è un uomo il cui tratto distintivo è l’onnivorismo, l’insaziabilità conseguente all’“eccesso di una occasione di scelta” che lo condanna a una infelicità perenne e, a sua volta, condanna la società a un costante stato di disagio.
Viviamo in un’economia che, per svilupparsi, ha bisogno di far crescere esponenzialmente il consumo e che ha prodotto un «uomo funzionale» al raggiungimento di questo obiettivo.
Molto più di quanto abbia fatto il fordismo – tematica di studio tra le più care a Revelli – in cui l’eterogeneità dei corpi veniva uniformata nei nastri trasportatori della catena, il consumismo si appropria della socialità del tempo di vita che, in una logica consumistica, viene funzionalizzato allo sviluppo e trasformato in forza produttiva; il tempo di produzione si identifica allora con il sistema complessivo delle emozioni, dei sentimenti, con il tempo (non più libero) di natura, nel suo senso più esteso, nel suo ambiente. Non più contesto ma strumento.
Laddove ha fallito il capitalismo sembra essere riuscito il consumismo.
L’assolutizzazione della forma d’inerzia, la dimensione totale e totalizzante della mercificazione che era implicita nel DNA del capitalismo, giunge solo ora a occupare monopolisticamente l’immaginario collettivo del tempo e dello spazio sociale.
L’inerzia si configura come unica risposta possibile al delicato rapporto tra identità individuale e identità sociale.
Va da sé che in un clima di irrisolutezza generale, dove il modello politico dell’azione collettiva è saltato, dove gli equilibri sono precari e il consumo accelerato di prodotti e servizi - con la conseguente incessante produzione di ‘falsi bisogni’ - provoca il prevalere della sfera privata sulla collettività, si ha la perdita dell’idea di bene comune, la perdita del controllo sulla vita, sul bios, sull’ambiente, sugli spazi dell’espressione.

Ritroviamo quanto rilevato e rivelato così chiaramente da Revelli nelle parole visionarie di Vito Acconci, tra gli artisti che per primi avvertirono la necessità di riappropriarsi di un tempo e di uno spazio, del silenzio, della riflessione, della relazione, dell’ascolto.
« Un tempo si poteva camminare per le strade di una città e sapere che ora era. C’era un orologio in ogni negozio; bastava soltanto guardare attraverso le vetrine mentre si passava. […] Ma i tempi cambiarono e il tempo sparì. […]. Non c’era più bisogno di mettere il tempo in quello spazio dove eravamo, dal momento che portavamo con noi il nostro tempo. Il tempo pubblico era morto; non esisteva più un tempo per lo spazio pubblico; anche lo spazio pubblico era destinato a sparire » (Vito Acconci, Lo spazio pubblico in un tempo privato, 1990)
Nei «tempi moderni», dove la comunicazione è puro feticcio, si predilige l’esternazione al contenuto
mentre la sfera pubblica viene fagocitata dalla sfera mediatica: i social network creano una socialità virtuale, in cui le relazioni, la condivisione, le connessioni sono postate e anche la community è precaria.
Come uscire dallo stato di inerzia e attivare dinamiche di trasformazione per riappropriarsi dello spazio, ambientale e sociale, del tempo naturale e per costruire occasioni di relazionalità non mediata dalla merce, ridisegnando un’antropologia altra, umana, diversa?
Quale ruolo possiamo auspicare abbia l’arte nel fornire una lettura della realtà capace di generare una moltiplicazione di pensiero e coinvolgere strati di popolazione sempre più vasti nel processo attivo di uscita dalla crisi e di creazione di un’alternativa?

Per una dinamica della trasformazione del reale, dove a ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria, l’arte avrà il compito di restituire il senso della spinta che l’ha generata, dando vita a un flusso continuo che permetta di uscire dalla stato di inerzia.

E’ l’attitudine che si riscontra nella pratica di quegli artisti che, con la loro operatività, compiono una fortissima azione politica, costruiscono una consapevolezza pubblica e lavorano sull’alternativa elaborando modelli di universi possibili: nuovi processi percettivi, sperimentali e partecipativi.
L’arte, calata nel vivo del tessuto sociale e ambientale, legge la complessità e trova nel limite la possibilità, rispondendo alle esigenze del presente con modelli alternativi a quelli esistenti, originando quel continuo passaggio tra stato di caos e struttura d’ordine che è la trasformazione.
L’opera d’arte diventa azione, gesto responsabile per la produzione di senso, di una coscienza collettiva, per una rinnovata semiotica del paesaggio.
Così, per citare esperienze recenti che al PAV hanno trovato occasione di proporsi, Etienne de France, sulle tracce della sea cow, indaga la biodiversità attraverso l’immaginario, trasponendo il senso di una relazione complessa, quella tra uomo e natura, da storia personale a sentire comune. Altra via è quella del CAE – Critical Art Ensemble, che reinventa invece la precarietà individuando un’inaspettata alleanza uomo-natura, capace di tradurre la crisi, la “precarietà ecologica”, nel fermento di inesplorate possibilità.

E mi sovvien l'eterno...



Stefania Crobe

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