giovedì 16 giugno 2011

Summer Evening

Giulia Lecce
premio LE STAGIONI/Si prega di scrivere
Terza classificata

«Chissà chi è l’autore di quel quadro?». In un tipico porticato americano un ragazzo e una ragazza parlavano. Era buio. «Sarà estate» pensò «lei è abbastanza succinta». In quel momento si ricordò di essere mezza nuda anche lei, frugò fra le lenzuola e non avendo successo nell’impresa cercò sotto il letto, stando ben attenta a non far troppo rumore. Lungi da lei anche il minimo desiderio di svegliarlo. Era l’autunno a farle quest’effetto.
Le piogge di settembre le sembravano ordinate e puntuali fino alla nausea. Come fossero andate in villeggiatura anche loro e orgogliose della loro puntualità dicessero «si ricomincia». Era un’attesa stanca. Come fosse convalescente da una malattia, quel giorno in più che, da ragazza, non andava a scuola anche se stava bene. Così la notte scorsa era uscita di casa sua ed era finita lì, per negare che avesse bisogno di guarire. Stava bene, andava tutto bene, sarebbe andato tutto bene. Lo pensava anche mentre prendeva le calze e le infilava appallottolate nella borsa. Ricordò di averla letta in un libro, una volta, una scena del genere, non ricordava però se anche la donna dalle calze nella borsa si sentisse tanto vicina alla vuotezza assoluta.

«Chissà se è davvero mai stato a una mostra di Hopper o se l’ha trovato nell’arredo della casa?» pensò guardando un quadro. Lo aveva già visto, appeso in una stanza d’albergo. E anche quella volta non riusciva a scovare la sua biancheria e se ne infischiava di far più o meno rumore. Si conoscevano da anni e se qualche volta si era fermata a far colazione era stato davvero solo perché aveva fame. Era l’inverno a farle quest’effetto. Gennaio la faceva pensare al lunedì, assennato, impegnativo. Il momento di sentire la responsabilità di riassettare le cose. Il freddo pulito, secco, senza sfumature di un inverno nel suo pieno rigoglio, giornate brevi e noiose che hanno appena spazio per l’essenziale. Non devi ricominciare tutto da capo, devi solo riprendere diligentemente le fila di ciò che avevi lasciato. È rassicurante e triste, la tristezza tranquilla che vuol dire «riposati adesso, non devi inventarti niente, va avanti, ci penserai poi». Si vestì alla rinfusa. Appallottolò le calze nella borsa e ripensò a quel libro dove aveva letto la stessa scena, era un bellissimo libro e la ragazza un’intelligentissima sgualdrina.

«Che splendido quadro!» pensò. «Si riesce a sentire il calore di quella notte e il bisbiglio dei due ragazzi». Si ricordò di essere però più pudica di giorno di quanto non lo fosse la notte. Vagò fra le lenzuola in cerca della sua biancheria, ma con la scusa di frugare accarezzò l’uomo al suo fianco, dal polpaccio su per la coscia, passando dai fianchi fino alla schiena, dove appoggiò un bacio leggero e inavvertibile che fece mugugnare il bel addormentato. Una scossa elettrica le attraversava lo stomaco. Conati incoercibili di straripante euforia. Era la primavera a farle quest’effetto. Aspettare quel sole, quel torpore, quell’atmosfera di intermezzo gioviale, eccitato, speranzoso. Aprile è come l’inizio del week-end, quando sei ancora stanca della tua settimana ma sai che poi ti riposerai, che forse ti divertirai, e chissà se potresti essere anche solo un momento felice. Le giornate sono più lunghe e tu hai più scelte e opportunità. È sempre una questione di opportunità, e la primavera ne incarna una. Frugando trovò le sue calze, pensò alla scena di quel libro dove quella tizia le appallottolava e le metteva nella sua borsa. Era un bel libro. Buttò sul pavimento le sue calze e nuda si rimise a sonnecchiare.

«Doveva esserci lo stesso cazzo di caldo quella notte, eh, Hopper!» pensò guardando il quadro alla parete di fianco alla finestra aperta che lasciava circolare aria calda e la luce che l’aveva svegliata. Aveva sete e anche voglia di vomitare; doveva vestirsi: andare nuda a casa di quel tale era una circostanza che le avrebbe acuito la nausea. Mentre si riempiva un bicchiere d’acqua calda dal rubinetto in cucina, pensava che non c’era da fidarsi molto di uno che a luglio non tiene una minerale in frigo. «Devo darci un taglio». Era l’estate a farle quest’effetto. Non è tanto la luce abbagliante né quel sole che di giorno ti prende a cazzotti i sensi, e il calore che continuano a emanare le cose la notte. I corpi scoperti, sudati, il ghiaccio che mordi mentre bevi un alpacino, la vodka che ti rapina di ogni inibizione. E se la mattina sei verde, l’abbronzatura ti salva dal fartelo leggere in faccia che verde lo sei anche dentro. Se lo sei. Neanche un paio di calze da appallottolare e mettere nella borsa prima di scappar via, come in quel libro. Sarebbe stata una scena degna di nota.

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