lunedì 27 giugno 2011

La mano a te dovuta - di Pamela Pelatelli

Autunno.
È quasi una settimana che piove. Sempre la stessa pioggia. Si infila sotto la pelle, sottile e insolente. A stare fuori tutto il giorno, con questa pioggia che batte sulla schiena, arrivo a sera e quasi non riesco a camminare eretto. Ho ventotto anni ma ne sento addosso molti di più.

Nella parte di Romania in cui abito, il lavoro nei campi è l’unica cosa che fa sopravvivere. E io lavoro la poca terra che la mia famiglia è riuscita a conservare. In questo periodo dell’anno tiro gli animali e il carro con l’aratro tutto il giorno. Avanti e indietro. Su per una specie di collina. Non ci sono trattori da queste parti. Solo qualche famiglia ne possiede uno.
Eppure bisogna seminare, altrimenti il prossimo anno non ci sarà alcun raccolto. Questa terra è tanto fertile agli occhi dei suoi compratori, quanto avara con la sua stessa gente. Per questo non ho intenzione di continuare a vivere qui. Non voglio vendere in anticipo la mia pelle al peggior offerente.
Inverno.
Sfrego i palmi delle mani l’uno contro l’altro da un paio di minuti ormai, ma è come se in mezzo non passasse calore. Li avvicino alla bocca e una nuvola calda investe la pelle. Nulla. Ho mani fredde e dure come pezzi di roccia. Solo il dolore mi ricorda che sono parte di me. Ogni volta che sbatto le nocche, una scintilla di sofferenza parte da quell’estremità del corpo e arriva dritta alla testa. Un brivido si aggiunge agli altri provocati dal freddo tagliente.
– Uèèè, Dario! –, Mario sta chiamando Darius. – Ricordati che tu e l’altro amico tuo dovete sbrigarvi con quel muro lì. Entro domani lo voglio fatto!
È stato Darius a farmi trovare lavoro nello stesso cantiere in cui anche lui fa il muratore. Mi ha aiutato molto da quando sono arrivato in Italia. Ora vivo in casa sua, con sua moglie Cosma. A fine giornata, mangiamo tutti assieme.
Di notte, sento le mani che continuano a pulsare come se il freddo fosse rimasto dentro e non riuscisse a trovare un varco dal quale uscire.
Primavera.
Darius è morto. È successo ieri mattina. Ha perso l’equilibrio mentre era sul ciglio di una delle tavole dell’impalcatura. Una disgrazia, l’hanno definita.
Mario non ha concesso neanche una giornata di riposo.
Sono in cantiere da questa mattina ma avrei solo voglia di vomitare. Gli altri muratori fischiano alle ragazze che passano e che scoprono le gambe al primo sole di primavera. Quando abbasso gli occhi, io vedo solo una chiazza di sangue.
Darius è morto. Ma a nessuno sembra importare un granché. Ammiro il cielo azzurro che mi sovrasta e ai miei occhi si trasforma nel fastidio di una risata sguaiata. Il vento che si sente da quest’altezza non mi scalda, al contrario mi investe come una raffica improvvisa che assale al girare di un angolo. È come se la mia vita fosse altrove.
Estate
Sento le gocce di sudore scendere lungo la schiena e fermarsi all’altezza della cintola. Il sole picchia come una raffica di pugni. È difficile anche alzare lo sguardo per sgranchirsi la schiena. E allora spesso rimango con la testa bassa tutto il giorno. Fisso a lavorare.
Vado avanti fino a quando Mario mi obbliga ad andarmene. Da quando Darius è morto, sono io a mantenere Cosma.
Oggi, dopo la pausa pranzo, Mario mi ha chiesto di seguirlo nel suo ufficio. Appena entrati, ha chiuso la porta dietro di sé e mi ha fatto sedere. Si è acceso una sigaretta e dopo un paio di tiri ha iniziato a parlare:
– Andrè, a me è dispiaciuto per quella storia del tuo amico, non credere. – Per un po’ ha tenuto lo sguardo fisso sul posacenere.
– Ti ho chiesto di venire qua adesso perché comunque penso che tu sei uno bravo. E allora ho convinto il capo a farti fare un contratto. Una cosa seria così puoi finirla con la storia dei documenti.
Dalla finestra si vedeva una striscia di cielo azzurro affacciarsi tra un palazzo e l’altro. Salutava me.

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