giovedì 16 giugno 2011

Immagini dell’assenza


Maria Chiara Monaldi
premio LE STAGIONI/Si prega di scrivere
Prima classificata

Mia madre amava tre cose. Il suo orto, le papere e le galline.
Quando lavorava nell’orto con il rastrello arrugginito, curva come un arco, le galline le razzolavano tra le gambe. Ogni tanto, si alzava e si appoggiava al manico del rastrello, una mano sull’altra e la guancia sopra.

In un giorno di luglio sono andata da lei. Stava preparando il terreno per la semina.
Le galline si rincorrevano in cerchio. Quando mi hanno visto, si sono fermate, becchettando indifferenti.
– Cosa fai qui? – ha chiesto mia madre.
– Sono venuta a trovarti – ho risposto.
– Ti serve qualcosa? – ha domandato brusca.
– Volevo vederti, nient’altro – ho detto io.
Mi ha guardato perplessa. Si è piegata e ha sollevato una zolla di terra.
– Dovresti andare dalla nonna, piuttosto. Mi ha chiesto di te.
Sembrava a disagio. Restava lontana. Non mi vedeva né voleva farlo.
Sono salita in macchina senza salutarla.
Le galline hanno ricominciato a razzolare tra le sue gambe come vispi gattini.

Della nonna Rosa ricordo tre cose. Il sorriso luminoso. La voce cristallina. Il profilo delicato sul corpo enorme.
Era così pesante da non potersi muovere. Viveva inglobata nella poltrona a fiori rosa e blu.
Si ammalò a ottobre. Sua figlia Maria, mia madre, iniziò ad andare da lei ogni giorno per farla camminare.
La prendeva sottobraccio.
La sollevava.
La portava in corridoio, in salotto, in terrazzo, in cucina. Impiegavano un’ora.
Poi tornavano alla poltrona.
Rosa accelerava il passo. Si chinava in avanti e si lasciava cadere tra i fiori rosa e blu.
Nello sguardo aveva l’albero di cachi dell’orto. I pomi lisci tra i rami spogli sembravano tanti soli al tramonto. Maria le si accovacciava accanto e le raccontava i suoi ricordi. Caterina, la madre di Rosa, le guardava dall’ovale accanto al camino.

La bisnonna Caterina era piccola e magra. Di lei conosco tre cose. La fotografia in cui sta affacciata alla finestra. Il quadro ricamato con le lettere dell’alfabeto. La storia del terremoto.
Caterina e sua figlia Rosa erano nel fondaco di casa. Cantavano per scaldarsi. Abitavano sulla sponda del fiume. Era umido e freddo, quel posto, d’inverno. Stavano pulendo le rape appena raccolte.
Caterina vide ondeggiare le trecce d’aglio appese alle travi. Sentì il pavimento sussultare. Lasciò cadere le rape e si mise a correre.
Corse e corse. Finché arrivò al fiume.
La testa le girava. Per la corsa. Per il fiatone. Perché non aveva Rosa accanto.
Si voltò. La casa c’era ancora. Corse e corse. Entrò nel fondaco.
Rosa era più piccola di quanto ricordasse. Stava seduta in mezzo al mare di rape violette. Le nocche bianche tenevano ferma la sedia. Gli occhi scuri si erano svuotati.

Sono tornata a casa di mia madre. Ci vengo di rado da quando lei non c’è più.
Ma è quasi Pasqua. Devo fare ordine. La polvere galleggia nella luce primaverile.
Apro un cassetto. È il cassetto delle fotografie. Da piccola, quelle immagini per me erano sfingi. Celavano un arcano. Le persone lì dentro non si sovrapponevano a quelle che conoscevo io. Le rughe non c’erano. I vestiti erano diversi. Le espressioni erano più serie.
Cerco di non fare rumore, aprendolo. Mi sembra di violare un santuario.
Invece non trovo sfingi e arcani. Trovo ragazze e spose, madri e figlie.
Prendo due foto.
In una, la mia bisnonna Caterina tiene in braccio sua figlia Rosa in fasce. Ha una gonna scura e una camicetta bianca.
Nell’altra, mia madre tiene in braccio me neonata, mi guarda e sorride. Ha una gonna beige e una maglia a righe.
Chiudo il cassetto.
Il profumo di acacie entra dalla finestra aperta. Il cuore mi batte più forte.

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