lunedì 9 maggio 2011

Delle immagini rivelate

Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai, o forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà
[Michelangelo Antonioni, Blow-up, 1966]


Si può ancora parlare di “esperienza estetica”, intesa come esperienza percettiva nel senso più empirico del termine, quando si è sempre più orientati verso una estetizzazione’ anestetizzante della conoscenza? Si può ricondurre l’esperienza estetica nell’alveo di una dimensione “percettiva” e “sensibile”?

Per la filosofia antica la percezione sensoriale rivestiva la modalità primitiva di decifrazione della realtà esterna e della sua conoscenza. La storia e la cultura occidentale hanno eletto, nella gerarchia sensoriale, il paradigma ottico come dominate relegando gli altri sensi a subordinati dell’esperienza visiva.
Cartesio, ad esempio, incarna in modo esemplare questo oculocentrismo asserendo la totale autonomia ed indipendenza della vista dagli altri sensi.
Tuttavia una domanda ricorrente, nel corso della storia filosofica, mette in discussione questo primato e questa autarchia della visione nel tentativo di comprendere come l’esperienza estetica possa essere individuata come esperienza del tatto.
Diderot, nella Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient (1749), si chiede in cosa consista l’universo d’esperienza del cieco: il cieco “vede”? Quando c’è assenza di vista, in che modo il soggetto si inserisce nella realtà?
Si fa strada una tradizione filosofica alternativa che asserisce il primato ontologico della percezione e che, destituita l’otticità, valorizzerà e rivaluterà - detronizzando l’occhio - i sensi cosiddetti intimi: gusto,olfatto, e soprattutto il tatto, nel loro agire e sentire individuale e nel loro rapporto sinestetico.
È attraverso la sfera tattile che noi acquistiamo la conoscenza più intima delle cose. Una coscienza “che tocca” - osservava Herman Parret - è una coscienza molto più ricca e penetrante rispetto a una coscienza “che vede”.
Il soggetto, coinvolto in un’esperienza aptica, partecipa in modo più intenso alla scoperta del mondo. Implicando le sensazioni del corpo ne esperisce la forma, la solidità, la consistenza, la fluidità, la levigatezza, la ruvidità. È attraverso l’esperienza tattile che la realtà si rivela in tutta la sua misteriosa profondità. Il toccare penetra le superfici, tendendo alla massima fusione con esse, e ci fa “sentire” avvicinandoci più profondamente alla verità stessa.
Il tatto ha il privilegio, unico tra i cinque sensi, di rinviare sempre e direttamente al corpo proprio. Un corpo che, secondo la filosofia di Husserl, si costituisce in quanto tale solo nel tatto. La conclusione è sorprendente: senza tatto, non c’è corpo proprio.

E in una fenomenologia dei sensi si inscrive l’opera di Evgen Bavcar (Slovenia, 1946, vive a Parigi) e la mostra personale Il corpo che guarda che il PAV gli dedica dal 29 aprile al 29 maggio 2011.
Bavcar è fotografo, filosofo, scrittore e artista, ma è soprattutto un visionnaire.
Privato della vista all’età di dodici anni a causa di due successivi incidenti, attraverso l’uso della macchina fotografica - per eccellenza strumento per la riproduzione del reale - Bavcar si riappropria di quanto gli è stato negato e attraverso quello che lui stesso definisce il terzo occhio - l’occhio interiore, lo spirito - ci dona se stesso e la sua personale e più che intima visione della realtà, intrisa di nostalgica memoria. Le fotografie di Bavcar sono prima di tutto immagini mentali, nascono dall’intelletto e poi prendono forma. I soggetti raffigurati da Evgen Bavcar sono nudi, paesaggi e bambini sempre immersi nell’oscurità, luogo dove lui vede.
Bavcar è solito fotografare nel buio, prende la macchina fotografica, la mano tocca e l’occhio accarezza, le mani vedono e il corpo guarda: da quella posizione allontana la fotocamera e scatta.
Lo sguardo dell’altro che solitamente provoca imbarazzo, nervosismo, irritazione in quanto soggettivizza, nel buio delle tenebre di Bavcar rende invece liberi di esprimere la soggettività più intima e profonda. Bavcar è lo spettatore ideale, quello che non esiste.
Ecco allora che i soggetti di Evgen Bavcar prendono vita e carichi di tensione sembrano quasi aspirare a un’eternità dove il non visibile, l’essenziale invisibile agli occhi, si rivela.
Quello di Bavcar - come nel mito di Pigmalione - è un toccare che anima e vivifica, al vertice della scala della sensorialità.

Ma Bavcar è anche e soprattutto un militante per i diritti dei non vedenti e ipo-vedenti in termini di accessibilità negli spazi pubblici, impegnato a combattere un sistema “oculocentrico” e l’assoluta priorità che la nostra società - la società dell’immagine - attribuisce all’iconografia. Tematiche, queste, care al PAV, da sempre impegnato ad ampliare l’accessibilità alla comunicazione, alla conoscenza, all’arte e che, in occasione della mostra di Evgen Bavcar, presenta IN/OUT/AROUND, progetto ideato dalle Attività educative e formative  del PAV, in collaborazione con la Divisione Servizi Socio Assistenziali e Rapporti con le aziende Sanitarie della Città di Torino, l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti, l’Accademia Albertina di Belle Arti e Tactile Vision, Torino, che vede una serie di appuntamenti rivolti ad insegnanti, educatori, operatori e studenti sul tema dell’accessibilità, della percezione, delle strategie espressive che si possono attuare con tutti i pubblici e un programma di educazione all’arte per le scuole e i gruppi dei centri socio-educativi della Città. Ma IN/OUT/AROUND è anche la conferenza di Evgen Bavcar , Il corpo, la totalità aperta ed il workshop tenuto dall’artista Il mio specchio: percezione non normativa.



Stefania Crobe

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