lunedì 9 maggio 2011

Dall'immanenza alla "fotografia transitiva"

L’atto del vedere e del conoscere non ha alcun effetto sulle cose appunto viste o conosciute - così i filosofi scolastici definivano aristotelicamente il concetto di ‘immanenza’ - come anche l’atto del fotografare non produce alcun effetto, tranne qualche eccezione, sulla realtà fotografata o «effettuale» (termine machiavellico prima che heideggeriano). Tale simmetria è superata nel momento in cui si trasla il ragionamento nell’ambito del lavoro del fotografo non-vedente Evgen Bavcar con le sue annesse dinamiche “produttive”.

“Chiudere” gli occhi permanentemente per un incidente irreversibile, come nel caso dell’artista in questione, spegne la pratica della “visione” diretta, spostandola quindi dall’ambito fenomenologico visivo a quello della memoria visiva, coadiuvata adesso dalle fenomenologie dirette dei sensi rimasti attivi. Il bagaglio di memoria farà da dispensa futura al suo «essere-nel-mondo», fornendo le coordinate spazio-temporali della “visione” o percezione, parallelamente all’attivazione di una serie di feedback sensoriali alle immagini primitive originarie conservate nella memoria, in un loop di scambio continuo di informazioni. Questo immaginario, caratterizzato da un flusso di energia da attualizzare, è “segnato“, visto il trauma sostenuto, da quello che le teorie dell‘evoluzionismo chiamano “engrammi“, vere e proprie cicatrici materiali che si formano nella memoria e che sarebbero continuamente risvegliate dalle nuove eccitazioni sensoriali.  

Guidato, quindi, dal pensiero illuminante innanzitutto, cioè dal concetto, che si è formato dalla memoria delle sensazioni come affermava Aristotele, e, dai quattro sensi attivi, dalla memoria del ‘visto‘, e non per ultimo dalla tecnologia (e non dalla tecnica) sempre più servoassistita nelle sue funzioni, il fotografo non-vedente Evgen Bavcar dà la propria posizione al mondo. Il suo «essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein)» prende forma e si materializza attraverso delle “fotografie” realizzate facendo lavorare proprio quei sensi, quel pensiero - solitamente (quasi) mai usati dai fotografi “normali“ - quella memoria della luce e di conseguenza dall’informazione accumulata nella sua prima parte della vita, quando la vista fisiologica gli arricchiva il bagaglio della memoria. Supportato inoltre da una tecnologia (fotografica) che con il suo «srotolamento fenomenologico» esaudirebbe così le nuove richieste estetiche dell‘artista dapprima impossibili, come ha affermato più volte il filosofo Mario Costa.

Il suo “predisporre” il reale, ai suoi scopi e quindi il suo approcciarsi carico di memoria da rinsaldare con la realtà «effettuale» percepita adesso dagli altri sensi, lascia appunto il “segno” sulla realtà stessa, veicolato e visibile adesso attraverso il media della fotografia.
Questa dinamica “accende” ciò che era reale immanente, immanens, trasformandolo in reale transitivo, transiens, producendo così - ma non può fare altrimenti, Bavcar è un “condannato” alla creazione (!) - una nuova realtà modificata da una sua idea, dimostrando forza e volontà tenaci.
In virtù di questi fattori, che contraddistinguono per Bavcar la dinamica del passaggio dal “dentro” al “fuori” (buio-luce), scatta inevitabile la relazione con il cosiddetto mito della caverna platonica, già citato dallo stesso artista. La fase “interna” (il buio) è rappresentata dalla memoria accumulata e in rielaborazione concettuale; mentre la fase “esterna” (la luce) è “visualizzata” dalla realtà modificata e mediata dalla tecnologia servoassistita, cioè la macchina! Per cui la tecnologia (e non la tecnica, come ho sottolineato prima) rappresenterebbe l’uscita dalla caverna dopo aver “covato” idee e pensieri, “parlando“ per l‘artista stesso.
Spingendomi ancora oltre, questa deduzione è allargabile oggi nell’epoca delle neo-tecnologie a tutti noi indistintamente, a prescindere da eventuali deficit; la tecnologia e adesso le neo-tecnologie rappresentano l’uscita definitiva e irreversibile per l’uomo dalla caverna del passato sostituendosi a noi.

Proprio il passaggio di carattere da immanens a transiens della realtà intorno all’autore, e a mano dello stesso autore, trasforma la fotografia generica, quella della realtà, in una ‘fotografia transitiva‘, ricca di elementi modificati e sottoposti a condizioni formali «a priori» verso un trascendentalismo dell’esperienza di stampo kantiano. Per cui queste “visioni” o squarci di reale “transitivo” aperti nel buio della notte, o trapassati dall’interno all’esterno della caverna, sono essenzialmente delle conquiste faticosissime che vanno oltre la fotografia di per sé; e denominarle tali è uno sminuire il lavoro ridotto a una pedestre riproduzione fenomenica della realtà, sebbene rappresentino, quasi, un «fatto» wittgeinsteniano; tanto da poterle considerare delle ‘non-fotografie’ o meglio degli “fotoengrammi” (a proposito degli engrammi conservati nella memoria).

Tuttavia il suo ambito rimane quello sempre della “fotografia” grazie a cui Bavcar riconquista, per rimanerci, il suo «essere-nel-mondo» con un processo di conoscenza prima e di modifica poi del “reale” nella sua completezza, preservando così la sua memoria immagazzinata dall‘oblio inesorabile e portandola a “lavorare“, a produrre “enti“: la realtà la determina, la isola, la struttura e la “raggiunge“. Un raggiungimento liberatorio e ancestrale con le vecchie immagini conservate in memoria (il “grembo materno”?) e simultaneamente flash di memoria visiva per il nostro futuro.

Bavcar si attiva per riappropriarsi di un territorio che prima era anonimo, e le sue azioni concorrono a trasformarlo in “vero“, in porzione di spazio attiva e non passiva o spenta. È la pulsione della vita che ci porta a conquistare nuovi territori, e la sua è un’azione che insegna a noi tutti, vedenti, a fare analogamente altrettanto, a forzare il territorio della non-conoscenza affinchè diventi conoscenza e vivere civile, e quindi sostanzialmente «essere-nel-mondo» e non dissolutamente en passant.

L’autore dimostra un rapporto d’amore con il reale dove lo spazio che lo contiene è costituito da elementi puri e distillati dopo la sua modifica, delimitati sempre e indissolubilmente da un pensiero deciso e forte (altro che ‘pensiero debole‘ …), e dal bagaglio della memoria che detta le coordinate: e per risultante quasi una seconda creazione, un nuovo mondo, il quale non è solo il suo, goduto e “sentito” probabilmente quasi alla pari di quello visivo, ma adesso è anche nostro, di tutti; un reale di nuova “genìa” si presenta a noi finalmente per il futuro di tutti, “costruito” dalle mani, dai sensi, dal “tecnologico” e dal pensiero rammemorante, (l’andenken?).


© Copyright Angelo Candiano, Torino, per gentile concessione, aprile 2011




Angelo Candiano, artista fotografo, si occupa principalmente di teoria e ricerca lavorando dal 1984 al suo ‘sistema della fotosofia’. Oltre ad una attenta attività espositiva propria, ha curato mostre e pubblicato saggi, tenuto seminari sul rapporto arte-fotografia e sul proprio lavoro in accademie e università.
Attualmente è docente IED di Storia e semiologia della fotografia a Torino.

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