lunedì 9 maggio 2011

Dall'handicap allo tsunami

La presenza al PAV di una mostra dell’artista non-vedente Evgen Bavcar rappresenta uno stimolo a riflettere sulla problematica delle bio-tecnologie, nel contesto dell’indagine critica e artistica sul mondo corporeo che andiamo conducendo quest’anno, sia  attraverso le opere degli artisti che con gli incontri seminariali mensili.

La questione dell’apparato sensoriale umano e dei suoi limiti biologici ha attraversato tutti gli anni novanta. Com’è noto le posizioni dei “transumanisti”, come Hans Moravec, sostengono la necessità di una totale riprogrammazione del corpo umano, non solo nel senso di emendarlo dalle patologie, ma anche di modificarlo strutturalmente e  funzionalmente.
La nota metafora di Moravec è quella della disaggregazione-ricomposizione del nostro corpo con mezzi tecnologici al fine di renderci “eterni”. La posizione degli “iperumanisti”, come l’artista Stelarc, è invece quella di  sostenere il potenziamento, con mezzi biotecnologici del corpo umano, del quale si sancisce l’inadeguatezza alle odierne  possibilità di interazione dell’individuo con la società cablata e ipertecnologica.
Per i pensatori “post-humanisti” come Roberto Marchesini la pretesa del possesso “privato e liberale” del corpo è un retaggio dell’antropocentrismo che va superato aprendosi alla possibilità di ogni nuova e libera coniugazione con il mondo, quindi anche con il mondo macchinino. In questa ottica le tecnologie vengono viste come capaci di ibridarsi intimamente con il corpo, divenendo esse stesse organiche. La fisiologia della percezione umana ha chiarito da tempo come i nostri sistemi sensoriali siano in grado di sopperire alla mancanza fisica di uno dei nostri cinque organi di senso, surrogandone le funzioni con una peculiare integrazione tra quelli che permangono attivi.
Nel caso specifico di Evgen Bavcar la cecità è sopravvenuta per cause traumatiche all’età di 12 anni; possiamo quindi supporre che nella sua mente l’attività di surrogazione della mancanza dei dati retinici sia facilitata dalla presenza di memorie visive mielinizzate nei primi dodici anni di vita. Quello che è certo è che il suo approccio sensoriale al mondo ha una modalità strutturalmente diversa da quella esperita dai vedenti; le sue “paradossali” opere fotografiche ne danno conto.
Tuttavia occorre considerare la condizione degli individui non-vedenti dalla nascita come il problema irrisolto di una aspettativa umana di pieno godimento sensoriale del mondo.
Negli anni ’90 sono state sviluppate delle protesi digitali che, con l’ausilio di dati GPS, permettono a un non-vedente di elaborare una mappa mentale del luogo in cui si trova.
Una sorta di bracciale a microaghi trasmette per via tattile, uno schema dell’ambiente  spaziale in cui il soggetto si trova, ad esempio un incrocio stradale.
Le odierne ricerche in campo tecno-protesico hanno finalità più radicali in quanto  configurano la connessione tra una retina artificiale e la rete organica dei nervi afferenti i dati visivi alla corteccia cerebrale, unendo competenze robotiche-informatiche a  competenze di neurofisiologia clinica.
Questa trasformazione in senso organico delle tecnologie avanzate, pone dei problemi di significato ben captate dai bio-artisti contemporanei.
Eduardo Kac, ad esempio, nell’opera “The Eighth Day”, costituita da una sorta di acquario-biosfera, propone la convivenza sperimentale di piccoli animali con piccoli bio-robot.
Rispetto all’epoca della cosiddetta “ideologia cyborg” - quella ad esempio del manifesto cyborg di Donna Haraway - stiamo entrando in una dimensione concettuale profondamente diversa.
Il cyborg con le sue protesi tecnologiche più o meno sofisticate era ancora l’espressione di un desiderio di potenza dell’uomo antropocentrico.
L’odierno cambio di paradigma presuppone invece una concezione orizzontale dell’uomo come essere coesistente nell’universo del vivente. Da questo punto di vista l’ibridazione uomo-macchina si manifesta in una convergenza reciproca tra il biologico e il tecnologico-culturale.
Tuttavia proprio dalla problematica dell’integrazione dell’handicap, elemento di partenza di queste riflessioni, emerge una connotazione di senso formulata da Jens Hauser, teorico della Biotech Art. Si Tratta del concetto di “bio-tecnodiversità compensativa” da lui proposto e illustrato nel corso del
convegno “Art & Biodiversitè” tenutosi a Parigi il 13 marzo 2011.
La tecno-biodivesità è stato uno dei paradigmi epistemologici fondati della biotech Art, intesa, secondo il lessico di Hauser ma soprattutto di Kac, a evidenziare come le pratiche transgeniche di laboratorio si pongano in una relazione di continuità con la transgenesi naturale, considerata come un fattore cardine di tutta l’evoluzione biologica. Infatti se tre miliardi e mezzo di anni orsono dei dinoflagellati monocellulari non avessero iniziato ad accoppiarsi, mescolando i loro geni, non avrebbe avuto luogo il processo evolutivo che ha portato all’attuale complessità degli organismi viventi.
Kac si definisce motivato dall’esigenza di mettere in grado i nostri contemporanei di acquisire la consapevolezza che la transgenesi tecnoscientifica è un ampliamento di quella naturale ed afferisce al grande regno biologico di “transgeneya”.
Tuttavia nella nostra consapevolezza delle odierne sfide esistenziali, nelle quali agiamo come co-protagonisti, entra costantemente una valutazione storico-sociale che ci orienta ad assumere ruoli e decisioni fattuali.
Il termine “compensativa” aggiunto alla “bio-tecnodiversità” rappresenta la connotazione storico-sociale - quindi politica - di una nuova opzione del nostro interagire con il mondo.
Il senso del termine “compensativa” si riferisce agli obbiettivi nodali delle biotecnologie che quindi si identificano nel ripristino dei processi della biodiversità. Una biodiversità che l’uso intensivo delle risorse e l’inquinamento globale dell’ambiente stanno riducendo a ritmo accelerato. Come argomentato da Serge Latouche, la causa del disastro ambientale e della progressiva riduzione della biodiversità è identificabile nel modello sociale di sviluppo della “crescita illimitata” propagato a livello planetario dall’ultraliberismo capitalistico.
Nella logica dell’ultraliberismo l’attitudine produttiva delle biotecnologie geomiche andrebbe sempre più volta ad aumentare quantitativamente la produzione agroalimentare industriale, massimizzandone i profitti privatistici.
Anche la cultura sociale dell’ultraliberismo agisce in senso opposto all’opzione compensativa del biotech, insidiando lo stesso campo di applicazione medico nel quale viene propalato un concetto di salute fisica estremizzato fino a negare la naturalità fisiologica della morte. La stessa ideologia dell’individualismo illimitato”, propalata al fine di incrementare il consumismo, si appoggia sul mito biotech del poter “creare la vita”, incarnato dalle imprese di Craig Venter, produttore di un batterio artificiale, con sessantaquattro geni, regolarmente brevettato.
Tuttavia gli eventi sia naturali, lo tsunami del Giappone, sia sociali, le rivoluzioni democratiche del Nord Africa, hanno iniziato a mutare lo scenario storico-sociale della nostra epoca; nuovi terreni di elaborazione politica, come il movimento della “decrescita serena” e il movimento per i beni comuni aprono nuovi varchi di senso per l’agire umano nel dramma odierno della sopravvivenza; in uno di questi varchi di certo alberga la bio-tecnodiversità compensativa.




Piero Gilardi
Artista, direttore artistico Art Program, PAV

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