lunedì 9 maggio 2011

Ciò che punge

La veggenza del fotografo non consiste tanto nel “vedere” quanto piuttosto nell’esserci
[Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Giulio Einaudi editore, Torino 1980]




Ora passiamo ad altro: Roland Barthes. Sapete chi sia? Mi auguro per voi di sì, non voglio saperlo.

Com’è possibile bagnarsi un piede solo camminando nella neve? Ho il sinistro zuppo, il destro no, sembra. Mi ero anche messa i calzini nuovi di H&M. Da H&M sono già iniziati i saldi. Ogni volta sempre la stessa storia. Cerco di organizzarmi, ma mi sveglio sempre quando quello che mi interessa è già finito. O sono rimaste taglie indecenti.

Oggi parliamo de La camera chiara. Nota sulla fotografia. È un saggio del 1980, in cui Barthes riflette sull’arte della fotografia…

Magari potrei andarci ora. A pensarci bene, perché no? Se ci fosse ancora quella maglia che ha Marina. Però di un altro colore, che quel giallino fa cagare. Però il taglio sì, il taglio mi starebbe bene. Mi piace che la manica destra sia più corta e tagliata obliqua, sì.

 … commentando foto di Richard Avedon, Robert Mapplethorpe, Nadar e Niepce. La camera chiara è considerato ancor oggi un punto di riferimento per la critica fotografica. Ma a voi vi frega qualcosa?

Chissà se ce la faccio però, oggi c’è la manifestazione. Volevo farci un salto, ma ci sarà qualcuno che conosco? E poi come torno a casa? Ieri la stazione era occupata. Mappelthorpe, Mappeltorp, Mapplethorp: chissà come si scrive?

Mi auguro per voi di sì, non voglio saperlo. Andiamo avanti. Dunque, perché “La camera chiara”? È lo stesso Barthes a spiegarcelo, al paragrafo 44:


Paragrafo 44, sembra importante. Il 44 è un numero importante, c’era anche in un film con Clint Eastwood: mi sa che dovrò comprarmelo questo libro. Potrei andare oggi a vedere in libreria. Chissà se ce la faccio, però. C’è la manifestazione. Poi ci sono i saldi da H&M. E dopo tornare a casa è un casino. Prenderlo a prestito in biblioteca?

“Si sta diffondendo l’utilizzo del termine Camera chiara per intendere gli strumenti attualmente messi a disposizione dalle tecnologie informatiche per la modifica delle immagini digitalizzate (tipicamente attraverso programmi di editing digitale). La genesi di tale termine deriva dalla contrapposizione ed estensione del concetto di Camera oscura, che rappresenta il luogo delle elaborazioni delle immagini basate sulla tecnologia chimica.”

Camera chiara Vs. camera oscura: nuove Vs. vecchie tecnologie. In effetti, non dovremmo nemmeno essere qui a far lezione. Ma con questo tempo di merda, che vuoi fare? Però un po’ mi sento in colpa. Domani vado all’occupazione, sì. Devo ricordarmi, però, di sentire prima Paolo, che se riesco a farmi dare un passaggio all’andata, poi ho casa libera. Si vabbé, è meglio se mi faccio furba.

“Il termine camera chiara è adottato riferendosi a un apparecchio antecedente alla fotografia che permetteva di disegnare per mezzo di un prisma, avendo un occhio sul modello e l’altro sulla carta. In questo senso la fotografia manifesta tutta la sua esteriorità, ma anche la sua interiorità misteriosa, impenetrabile, non rivelata.”

Interiorità misteriosa, impenetrabile, non rivelata. Non sembra male, mi sa che mi compro il libro, merita. Guardalo lì Paolo, che se ne frega della manifestazione e di tutto il resto. Lo capisco da come tiene immobili le mani, che non gliene frega niente. Non credo neppure mi abbia vista. Ma come fa a fregarsene tanto di tutti? Chissà a cosa pensa. Quelle mani però, quelle mani dicono tutto.

Barthes distingue tre elementi fondamentali dell’arte fotografica: l’operator ovvero l’operatore, colui che fa la foto. Lo spectator, ossia il fruitore, lo spettatore. E lo spectrum, vale a dire il soggetto immortalato.

Operator, spectator, spectrum. Chissà che bisogno c’era di mettere dei nomi latini. Ma chissenefrega. Certo che il professore è proprio spettinato. Come farà ad avere sempre capelli tanto unti?

L’autore distingue inoltre due modi che ha lo spectator di fruire una fotografia: lo studium è l’aspetto razionale e si manifesta quando il fruitore si pone domande sulle informazioni che la foto gli fornisce. Per esempio, costumi, usi, aspetti.

Studium: razionalità, analisi da parte del fruitore, informazioni extra su elementi fotografati.
Potrei fare una foto all’aula con l’iPhone, e poi farci uscire lo studium. No, mi noterebbero subito e farei una figura di merda. Non capirebbero che era per lo studium. Lo studium: ci fosse un modo per tirare fuori qualcosa da Paolo, chissà.

Il punctum, è invece l’aspetto emotivo, ove lo spettatore viene irrazionalmente colpito da un dettaglio particolare della foto.

Punctum: emozione, irrazionalità, dettaglio. Questo l’avevo già scritto, mi sembra. Sì eccolo qua, quando prima diceva dell’interiorità non rivelata. Questa cosa che la fotografia si porta dietro un po’ di mistero è davvero interessante. Aspetta, che collego i due punti, fatto.

Proprio il punctum, signori, è l’elemento più importante e originale su cui si fonda il testo e l’analisi di Barthes. Riuscite a capirlo? Spero di sì per voi, non voglio saperlo.

Merda, mi si è scaricato il cellulare, e ora come faccio a sentire Vale? Lei al corteo mi sembra avesse detto che ci voleva andare, cazzo. Punctum, punctum, lo sottolineo anche di rosso, ecco. Mi ricorda un gioco sulla Settimana Enigmistica, dove devi trovare l’intruso nella vignetta.

Prendiamo per esempio questa foto di Koen Wessing. Siamo in Nicaragua nel 1979, tre militari stanno pattugliando una strada. Sullo sfondo si vedono detriti e case, strade. E questo è lo studium della foto.

Da quanto tempo non faccio più un cruciverba! Chissà se i miei comprano ancora quei giornaletti. Che ridere, papà si incazzava sempre un sacco con Bartezzaghi e le sue definizioni. Io preferivo collegare i numeri e fare uscire i disegni. Mi rilassavo. Come quando collego i nei lungo la schiena di Paolo. Ma chi è questo Wessing? Io non l’ho mai sentito. Però la foto è buffa.

Ma il punctum, il punctum della foto, signori, quello che la rende unica e che ha fatto sì che arrivasse fino a noi, qua e ora, sono le due suore che passano, tra il primo piano dei militari di pattuglia e lo sfondo della città coi detriti, le case, le strade e tutto il resto. Le loro vesti nere, morbide e gonfie, i mocassini neri e impolverati, i veli a chiudere i volti in cornice. La prima con lo zigomo alto, alta pure lei, lo sguardo teso davanti, che non ammette repliche, le calze trasparenti. La seconda con il braccio destro lungo il fianco, l’indice e il medio rilassati, rattrappite a pugno le altre dita, il braccio sinistro a chiudersi il collo, lo sguardo verso i militari e il fotografo in primo piano. Gli occhiali tondi e neri, a chiuderle gli occhi come un secondo velo.

Ma con le foto è facile trovare il punctum, hai tutto il tempo che vuoi, per guardarti e riguardarti le cose, senza che cambi niente. Se ci fossero punctum anche nella realtà? Magari solo qualche volta, per aiutarci a riconoscere i momenti che contano? Dei Landmark, a cui nessuno presta attenzione? O se fosse invece come per le coincidenze, che ci sono sempre e dappertutto, ma noi chiamiamo “coincidenze” solo quelle di cui ci accorgiamo? E quindi fossimo assediati di punctum e coincidenze a nostra insaputa?

Vi è chiaro quello che sto dicendo? Guardate che avete solo da fare domande, se non capite qualcosa.
Prendiamo un altro esempio, ecco, vedete bene? Aspettate che metto meglio a fuoco il proiettore, ecco. Questa è una foto di Jann Tharolsen scattata durante un torneo internazionale di golf. Il campo non si vede, non si sa cosa succede, c’è solo un lembo di fairway, il rough e il pubblico. Tra il pubblico però, c’è una ragazza, la vedete? Guardatela con attenzione, per favore. Questa ragazza bionda, dalla lunga veste bianca. Sembra allontanarsi dal campo, a giudicare dall’orientamento del corpo, le spalle, i piedi. Il viso, tuttavia, è rivolto al campo, o a dove si indovina esserci il campo. Da cui la sua attenzione pare rapita. Che cosa guarderà? Perché se ne sta lì, e che cosa l’ha attratta fuori dal campo della foto, ma dentro il campo da gioco? Mi capite? Questa ragazza è il punctum della foto, senza questa ragazza, che con la sua lunga veste bianca non c’entra nulla con il resto del mondo della foto, la foto stessa sarebbe una foto sbagliata, una foto senza senso. Il senso di questa foto sta proprio nell’unico elemento al suo interno senza senso, o il cui senso è esterno alla foto: è chiaro? Domande?


E se fosse davvero così, che cosa capiterebbe quando un punctum sparisce? Succederebbe come quando da un giorno all’altro ti sparisce un neo dalla schiena? Che non vedi bene e non sai se sei tu, il neo o lo specchio. C’è da preoccuparsi? A Paolo una volta è successo, si è preoccupato un sacco. Qualcuno si accorgerebbe di qualcosa? Io con il neo di Paolo me ne sono accorta subito. Che ridere, il precariato delle realtà senza più punctum, il punctum a tempo determinato. Potrei chiedere una di queste cose qua, ma non so se apprezzerebbero…Piuttosto, che ora si è fatta?

Le domande ci sono, iniziano a levarsi mani a grappoli. Mani nervose, mani ossute, mani grasse, mani tozze. Mani. La lezione è finita, come ogni cosa quando arriva il momento delle domande. E come sono tante le mani che si levano per le domande, altrettante si apprestano a mettere via quaderni, taccuini e biro, riponendoli in zainetti, tascapane, borse e tracolle. Mani veloci, mani ansiose, mani pigre, mani meticolose. Mani.

Tra queste ultime, le mani di una ragazza che, trovato il posto a ogni cosa, si alza e prende borsa e congedo; dall’aula, la lezione, l’insegnante, i compagni, i corridoi, le scale, l’ingresso, l’istituto. Andrà a una manifestazione studentesca, cercando una sua amica senza poterla chiamare a causa del cellulare scarico, poi andrà in cerca di occasioni presso lo store di una grossa catena di vestiti, ed entrerà in una libreria indipendente in cerca di un libro del 1980. Questa ragazza, uscendo dall’aula, si volta verso l’aula e la scandaglia per un tempo indefinibile, indugiando tra gli angoli e le file ordinate di banchi e compagni, fino alla solitaria cattedra. Tutto, nella retina.
Un grandangolo d’insieme, certo, incapace di pungere, tuttavia. Subito dopo, un po’ delusa dell’insuccesso, esce del tutto. Questa stessa ragazza, dunque, non vedrà mai i compagni, l’amica che si era dimenticata di salutare in quarta fila, Paolo, seduto in alto a sinistra con le sue mani che dicono tutto, il professore, assertivo nel rispondere alle domande dei compagni e carezzarsi con la sinistra i capelli unti e spettinati, i banchi ordinati e la cattedra assertiva a sua volta, fermarsi d’un tratto. Indugiare su se stessi, cristallizzarsi nell’immagine d’insieme ormai possibile solo nella retina di lei, e quindi dimenticarsi della loro medesima esistenza, ormai priva di qualunque forza metonimica. Fino a scomparire in fretta, come il ricordo d’una fotografia senza neo, un’epidermide senza punctum. Qualcosa capace a orientare le cose, fornire una geografia, un motivo per esserci. Qualcosa dopo di lei, i suoi capelli biondi, la lunga veste bianca.



Marco Magnone
Studio Editoriale PANGRAMMA

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