lunedì 30 luglio 2012

Al fuoco, al fuoco!

Da tempo casa è il villaggio globale. O la sua illusione. E la lingua comune per illuderci è l’inglese. L’inglese chiama home il luogo attorno cui si scaldano gli affetti famigliari.
Dentro a cui si agitano passioni, rancori, legami. Molto più che la semplice house, di cui si occupa soprattutto il mercato immobiliare. Ancora più calda è la questione della Heimat tedesca, e di cosa si è portata dietro nei traslochi da un’accezione all’altra, i prodromi del Terzo annidati al tempo del Secondo Reich. Ma anche nell’italiano di un’Italia senza imperi, la casa, quest’idea di casa, brucia. E già bruciava nei vecchi documenti della chiesa di tutti o dei signori di qualcuno, dove si scriveva fuochi per contare i nuclei familiari presenti nei villaggi. Per contare famiglie e case: focolari di storia e storie, che bruciando modellano la nostra memoria. Questi temi sono molto cari ad Antonella Tarpino, editor Einaudi, che se ne è occupata, tra gli altri, in Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani (Einaudi 2008), Il paese che non c’è (Communitas, 57, dicembre 2011) – di cui è stata curatrice con Vito Teti – e Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, di prossima uscita.


Antonella_ Nella sua metamorfosi, la memoria contemporanea appare sempre più estenuata, ma insieme incontinente: si ritrae dai sacrari convenzionali dello spazio pubblico (i monumenti, i lapidari con tanto di targhe al centro delle piazze cittadine) per privilegiare gli scenari più intimi, la vita quotidiana. E in questo rimescolarsi delle immagini del passato, la casa finisce per costituire il raccordo simbolico fra memoria e durata.

Marco_ In questa accezione, la casa prende più la forma senza corpo del tempo che passa, o di un custode dei segni materiali che gli uomini lasciano dietro di sé?


A_ La memoria, fin dalle sue origini mitiche come tecnica oratoria, si trasmette attraverso immagini impalpabili ma rimane scolpita anche nella pietra: il richiamo primordiale va alle case-grotte dei villaggi rupestri del Mediterraneo, espressione di un’antichissima cultura agropastorale che eremiti e contadini abitarono per millenni. Case reali, in senso stretto, e allo stesso tempo case della mente: seguendo itinerari mobili, ai confini tra storia, letteratura, urbanistica, le antiche dimore divengono
anche i luoghi della trasfigurazione letteraria nella memoria romantica (il castello di Combourg per Chateaubriand) come in quella d’ispirazione vittoriana (gli amati cottages cari a Henry James e a Edward Forster) in cui si celebrano le virtù dell’intimità borghese.


M_ La civiltà borghese e la sfera domestica: l’Occidente ha prima visto l’ascesa di una società basata sulla famiglia patriarcale e nucleare, quindi la sua crisi nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Questo grumo di conflitti e affetti è ormai sciolto?

A_ Ancora oggi la casa finisce per costituire, nello sguardo disorientato del presente, il simbolo di un’inedita “geografia della sicurezza”. In essa, pensieri e immagini, all’insegna delle ragioni della stabilità o delle sue illusioni, si integrano armoniosamente. La casa è il primo mondo dell’essere umano, per questo replica all’infinito stimoli di protezione fornendo alla memoria uno spazio consolatorio, fisicamente posseduto. Lo spazio “felice” circoscritto dal perimetro domestico è il solo, infatti, in cui si ha la certezza di esistere, al contrario dello spazio “indifferente” o “ostile” dell’esterno, scavato progressivamente dai varchi dell’incertezza e della perdita. D’altra parte, la casa è da sempre una figura ambivalente. Composto perturbante (domestico e insieme inospitale nel romanzo gotico), la casa può conservare, tra i resti delle sue mura, i segni più duri della violenza privata o della guerra, così come della frattura dell’avventura industriale, stratificata nelle periferie delle nostre città.

M_ Was bleibt, allora, a tenere insieme il tempo di oggi con quello di ieri e dargli senso?

A_ Dalle antiche dimore, alle rovine di guerra, dalle cascine fino ai caseggiati di periferia: ciò che sopravvive nelle vecchie case è la traccia persistente di quel legame sempre più incerto tra il passato e il presente, che solo l’evocazione dei simboli universali dell’esistenza tiene in vita. Sono gli edifici e gli oggetti quotidiani che, quasi proiezioni del nostro corpo, preservano la memoria quotidiana nel tempo, ne comunicano le emozioni in profondità, accendendo il ricordo, il “fuoco” delle cose che ci uniscono agli uomini del passato, più dei simboli appannati della memoria tradizionale.

M_ Quali sono le modalità materiali, i gesti, che nella nostra vita quotidiana ci permettono di non recidere il contatto con cosa è stato e non è più?

A_ Il verbo “abitare”: non abitano forse le immagini della memoria i recessi più profondi della mente? Abitano o, secondo un’espressione più aulica, “dimorano”: evocando sia il concetto di dimora che di permanenza, il termine sovrappone l’idea di luogo all’idea, ancora una volta, di durata.

M_ Abitare, allora, può essere un atto di resistenza?

A_ È proprio questa la particolarità delle case: sono residui di un tempo denso di valore proprio perché sedimentato in controtendenza, “resistente” si potrebbe dire, al suo puro fluire. E, insieme, custodi come sono di esistenze che precedono o seguono la vita del singolo, le case divengono testimoni dei duplici movimenti, in avanti e all’indietro, del tempo e dello spazio. Il primo, tra passato e presente. Il secondo, tra dentro e fuori. La casa resta, infatti, sospesa tra gli ambienti protetti dello spazio interno e i perimetri affacciati su quello esterno. Alle camere più riposte, adibite alla vita privata, sono di contrappunto le aperture sulla strada, porte, finestre, balconi, inclini agli scambi e alle relazioni.

M_ C’è un punctum, attorno al quale tutte queste forze diverse possano trovare equilibrio?

A_ Casa e memoria possono fondersi in un’unica figura, nell’immagine del “ritorno”. Come si torna fra le mura rassicuranti della casa, così anche la memoria è un tornare-a, uno scrollarsi di dosso tutte le “assenze”: è la conquista di quello stato di sospensione in cui, nel risalire alle origini, trova alimento il ricordo. La casa diviene, lungo questo percorso, figura dell’anima.

M_ Una sorta di arca quindi, alla quale affidare i nostri mondi privati e insieme pubblici?

A_ Esatto. La casa è l’arca che ci contiene ed entra “in noi come noi siamo in essa”. Tra le pareti domestiche si deposita la nostra vita, fatta di eventi biologici e di emozioni: è l’interno che si confonde ai nostri gesti e ripete all’infinito le strategie del vivere. Gli oggetti che vi si raccolgono sono parte di noi e ci riflettono: sono proiezioni di paure il celarsi fra tendaggi opprimenti, o di desideri l’esibizione vistosa di argenti e preziosi. La casa è la figura di uno spazio di possesso, su cui, come su un calco, i rituali del corpo e della mente si riproducono instancabilmente. La si porta con sé, anche quando non c’è più, perché una parte di noi vi continua ad aderire: nei recessi più profondi di una memoria che è tutt’uno con la vita.

M_ E per questo, il ritorno a essa è un fuoco che non cessa. Un fuoco bello.


Marco Magnone
Laboratorio editografico PANGRAMMA

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